Per uno stato che non c'è

di

Claudio Magris

L'assassinio di Matteotti è rimasto il simbolo della violenza fascista e della sua vittoria sullo Stato, della sua presa ed esercizio del Potere. L'assassinio di Giovanni Falcone e delle altre persone trucidate sabato scorso, come quello del generale Dalla Chiesa e di altri che hanno osato combattere realmente la mafia, è una catastrofe molto più grave per lo Stato e per la società civile. Il fascismo aveva il potere di commettere quella violenza, ma non di occultarne la provenienza; tutti sapevano quale era la mano omicida e questa conoscenza della verità, che assassini e mandanti non riuscivano ad inquinare, poteva essere la premessa per combattere, un giorno, quella violenza e magari sconfiggerla.

Oggi non sappiamo chi ha ucciso Falcone, sua moglie e la sua scorta; non sappiamo chi, fra le autorità e i politici che si stracciano le vesti e rilasciano dichiarazioni che esprimono genericamente sdegno e invocano genericamente fermezza, ha combattuto veramente al suo fianco nella sua lotta eroica, chi lo ha ostacolato affiancandosi nell'ombra ai suoi carnefici e chi gli ha messo bastoni fra le ruote pensando a miserabili giochi di potere piuttosto che alla necessità di colpire realmente il cancro che ci divora. Come un tumore mostruoso che dilaga in una metastasi inarrestabile, la mafia è divenuta parte del corpo che dovrebbe combatterla, si è intrecciata con gli organi dello Stato e del mondo politico fino a rendersi, spesso, indistinguibile da essi. Falcone è vissuto ed è morto con un coraggio incredibile, vivendo per anni braccato e minacciato e senza lasciarsene turbare, non solo rischiando ogni giorno concretamente la morte senza deflettere di un millimetro, ma anche sacrificando - nel bunker o nella caserma in cui era costretto a vivere, quasi fosse un bandito alla macchia anziché un magistrato alla sua caccia - ciò che rende godibile e normale l'esistenza, la serenità quotidiana, la famiglia, la casa. In questa dedizione a un valore superiore e in questo sacrificio di sé c'è una reale santità, non immeritevole degli altari. E c'è quel coraggio che rende la vita degna di essere vissuta, perché solo chi è pronto a perderla, come dice il Vangelo, la vive pienamente. Quando, poco dopo il suo assassinio, si sentivano le dichiarazioni di alcuni politici evidentemente preoccupati soprattutto che esso non turbasse i loro piccoli piani, e si vedevano alcune facce, poco dopo aver visto quella di Falcone e ascoltato la registrazione di alcune sue parole, si capiva che gli uomini non sono uguali e che l'anima non è stata data a tutti.

Per noi è stata un'emozione enorme; quando è giunta la notizia i miei figli, che stavano guardando casualmente la televisione, hanno gridato «No!», come se avessero appreso improvvisamente una sciagura familiare. Invincibile nel valore morale del suo buon combattimento che dà dignità alla nostra miseria, Falcone - come Dalla Chiesa e tanti altri muore tragicamente sconfitto sul piano politico, presta il suo nobile e indimenticabile volto alla nostra sconfitta, forse definitiva. Si è battuto da solo o quasi, non soldato di un esercito solidale intorno a lui, ma circondato da alcuni commilitoni e superiori coraggiosi e fedeli, da altri codardi e inclini alla resa, da altri che patteggiano col nemico, da altri ancora pronti a sparargli alle spalle. Una guerra combattuto in questo modo è fatalmente perduta. Il terrorismo fu vinto facilmente, perché, dopo un'iniziale incertezza, ci fu la volontà di vincerlo.

Questa volontà, nei confronti della mafia, da parte del cosiddetto Stato non c'è: si intraprendono, nei suoi confronti, attacchi di piccola e anche media entità, ma l'attacco globale, che dovrebbe avere la durezza di una guerra spietata, non viene mai. Quando ci si avvicina a scoprire un nodo essenziale della connessione tra mafia e potere pubblico-, tutto si confonde e chi insiste per andare a fondo viene rimosso o eliminato. Falcone doveva essere protetto più di ogni altra personalità del nostro Paese, perché nessuno come lui incarnava lo Stato; se non si è saputo o voluto difenderlo, ciò significa che lo Stato non esiste. Forse esiste, ma, almeno in una larga fetta d'Italia, è la mafia ad essere lo Stato reale ossia ad esercitarne le funzioni essenziali. Il monopolio della forza, il potere di costringere i cittadini, la capacità di comandare, vietare e punire, di promulgare ed eseguire sentenze di morte. Il siciliano Falcone riscatta, come tanti altri, l'antico male della sua terra, ma è indubbio che la guerra contro la mafia sarà perduta anche finché, presso larga parte della popolazione nel Mezzogiorno d'Italia, esisterà quella mentalità che, pur non approvando la mafia, la tollera, la comprende e non guarda tanto con ribrezzo a chi ne fa parte quanto con vaga ostilità a chi arriva per combatterla. I giudici che indagano a Milano sono un po' più protetti di quelli che indagano a Palermo, perché una strage come quella di Palermo, se avvenisse a Milano, scatenerebbe un finimondo, che a Palermo, nonostante l'impegno di tanti, non avviene. Non so con che faccia e con che cuore si possano mandare ogni tanto a morire magistrati, poliziotti e carabinieri in una guerra che non si vuole combattere a fondo. t improbabile che il Dio della Bibbia colpisca gli osceni assassini con le folgori e con la lebbra, come faceva nell'Antico Testamento, ma è ancora più improbabile che essi finiscano in carcere. Questa Italia non ha meritato Falcone e gli uomini come lui, caduti per un'Italia che non c'è. Può darsi che per essa si stia avvicinando la fine e forse l'unica soluzione, anche per salvare i valori dell'Italia del Risorgimento, è che essa si sciolga in uno Stato europeo. La nostra classe politica non sembra sentire abbastanza il fetore di morte e decomposizione, anche perché emana pure da essa e chi non si lava non si accorge dell'odore che sparge intorno a sé.

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